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Forse è un quesito di una qualche importanza visto che ai giorni nostri la produzione artistica va di pari passo con la narrazione sociale attraverso i vari canali di comunicazione: web, social media e così via. Sono giorni, i nostri, in cui non si riesce proprio a fare a meno di “comunicare l’arte”. A cosa servirebbe altrimenti quell’esercito di giornalisti, critici, curatori e uffici stampa che si incontrano ai vernissage?
In realtà, abbandonando la vena polemica, alcune sono figure ormai appartenenti ad un ecosistema digitale in cui produzione, circolazione e comunicazione dell’arte convergono. Le opere d’arte circolano ormai veloci come immagini: è un’arte questa che si adatta fluidamente alle piattaforme digitali. È un’arte fatta per essere fotografata, condivisa, sostituita dall’immagine successiva. Le giovani generazioni di artisti, quindi, curano i loro profili social e questi profili creano un’audience, accumulando un capitale sociale che è quantificabile in follower, view e share.
La domanda che in molti si pongono è: sarà vera arte? E ancora: è importante definire il rapporto che oggi l’arte ha con la verità o col suo contrario? Più che contrario potremmo usare il termine post-verità, col quale nell’Oxford English Dictionary si intende: «una notizia che viene percepita e accettata come vera dal pubblico, sulla base di emozioni e senza alcuna analisi critica, sfruttando magari malcontenti comuni». Intendiamo, in una parola, le fake news.
La crisi delle verità e della comunicazione è colta in modo efficace dall’opera d’arte pubblica dell’artista libanese Nadim Karam intitolata Politics of Dialogue. The Merry-Go-Round, collocata nella piazza principale della scuola UWC United World College di Maastricht. L’opera era stata realizzata da Karam per la Biennale di Venezia 2019. Sette politici, rappresentati da altrettante figure allungate, sono disposti in cerchio (governo) e montati su una piattaforma girevole (il mondo). Le figure sono simili a megafoni e paiono bloccate in un dialogo ripetitivo. Dalla piattaforma esce una melodia ipnotica e i politici si muovono in modo alternato: cercano di condurre una discussione che evidentemente non fa altro che girare su se stessa.
Politics of Dialogue ci racconta di una comunicazione che va in crisi proprio a causa del cortocircuito dell’iperconnettività, in un mondo popolato da social e talk show. L’installazione richiama la nozione di “camera d’eco”: la situazione in cui le informazioni o le idee stesse sono amplificate mediante la ripetizione all’interno di un sistema definito. In questo modo, gli individui sono incoraggiati a consumare solo i contenuti che riflettono le opinioni che già hanno. Sono queste bolle di conferme positive a alimentare le fake news.
L’arte può essere l’oggetto di una a volte dubbia narrazione sociale che viaggia sui diversi media digitali e tra i pubblici degli addetti ai lavori e dei comunicatori, ma può essere anche il detonatore espressivo che in una piazza olandese ci induce a riflettere su quanto cerchiamo conferme positive che alimentino convinzioni che già abbiamo, in una bolla in cui non penetra il dissenso, soprattutto quello che non transita dai social.
Può venire da chiedersi se nel primo caso l’arte che si muove sulle piattaforme digitali possa essere più facilmente strumento, o addirittura vittima, di fake news. Ebbene, per Martin Heidegger l’arte è innanzitutto ricerca dell’essenza prima delle cose che deve poi aprire un nuovo mondo.
Tutta quell’arte in grado di aprire dinanzi a voi mondi nuovi e produrre uno “Stoss”, un urto, un effetto spaesante per la vostra mente, è un’arte che non teme fake news.
Fabrizio Broccoletti