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Tutti ricordiamo dove fossimo in quei giorni che ci hanno cambiato la vita. Pensateci.
11 settembre 2001
Le torri. Mi vedo ancora in ufficio, secondo piano a Bergamo.
Le persone, i silenzi, le lacrime.
15 settembre 2008
Giorno tosto per chi lavora(va) nei servizi finanziari. Ero al settimo mese di gravidanza e ricordo perfettamente le facce di chi era in ufficio.
4 novembre 2008
Elezione di Obama e nascita di mio figlio*. Ho ascoltato il discorso della vittoria uscendo dalla sala parto, con il pediatra e il ginecologo.
Il 26 gennaio 2020 ero a Venezia e prendevo un aperitivo con Lafrancy – articolo incorporato – l’amica di una vita (aperitivo, oggi sembra una perversione!).
Il telefono vibra e non lo guardo. Bevo e rido.
Poi vibra ancora, poi ancora.
Lo guardo.
Bruno mi scrive pare sia morto Kobe.
Non è vero, dai, boiata. Le solite fake news.
Metto via il telefono e continuo la serata alcolica con quel pensiero li.
Poi ancora squilli.
Le agenzie la avevano già battuta da tempo la notizia.
Kobe è morto.
Quando esisteva ancora solo la tv mi svegliavo la notte a vedere le partite Lakers-Celtics commentate da Dan Peterson. Alzi la mano chi c’era. La mamma sperava facessi danza classica o al massimo moderna. A me piaceva correre e amavo i Lakers.
Magic Johnson e i grandi Lakers sono stati il motivo per cui la sottoscritta e una, due, tre generazioni sono diventate giallo-viola.
Poi un bel giorno arriva un ragazzino che parlava italiano. E porta quei colori con orgoglio e dedizione. Facendoli amare sempre di più dalle generazioni di cui sopra.
Kobe non era solo un ragazzo di talento, era un campione.
Uno di quelli che costruisce la sua forza con la volontà, la dedizione, la consapevolezza, l’esercizio e l’impegno. E la fedeltà. Il talento non basta, non continuiamo a dire le solite cose facili. È il punto di partenza, certo, ma non basta.
I campioni sudano, sputano sangue, si allenano, stringono i denti e raggiungono il successo perché lo vogliono e non perché è facile grazie al talento.
Kobe pare fosse il primo ad arrivare e l’ultimo a uscire. Esercizio, allenamento, perché (anche) così si raggiunge la vetta.
Fedeltà alla maglia. Non è solo la maglia, ma è una città, una comunità di tifosi. 20 anni insieme. Impossibile in un mondo in cui ogni rapporto diventa sempre più leggero. 20 anni con gli stessi tifosi, con loro e per loro. Vincere 5 anelli quasi passa in secondo piano.
Il 27 gennaio 2020, la mattina sono rientrata a Milano. Ho preso 4 frittelle alla crema e lungo la strada mi sono fermata da Bruno a fare due chiacchiere.
Avevamo dormito entrambi quasi nulla e ci ha fatto bene. Per entrambi Kobe ha significato tanto, in maniera totalmente diversa.
E oggi, dopo un anno, ci manca.
La lezione che ci lascia Kobe è importante.
E non va dimenticata, non solo per come è finita, ma anche per come è iniziata.
In un campetto a Reggio Emilia.
*la foto è fatta nella sua camera, stamattina